Alcune regioni minime per cui mi sento europea

Melita Richter

Mi sento europea perché mio padre mi narrava storie dei leoni di pietra
che vegliano sul ponte Lanc Híd
il Ponte delle catene di Budapest
e così vicini me li rese, che io, palpebre chiuse e narici tese,
immaginavo le belve bagnarsi nelle acque dense del Danubio
il grande Duna di József Attila.
Quelle stesse acque pesanti che scorrono vibranti sotto i ponti di Vienna
dove zio Otti portava a trottare cani da caccia dal pelo corto color pepe.
Ah, il nostro Otti, che vita opulenta!

Mi sento europea
perché nei pomeriggi ambrati zagabresi
mia madre sgranava le note di Grieg e di Pergolesi
con la stessa dedizione con cui sfornava i domenicali Rostbraten
e gli struccoli di ciliegie fumanti
colmi di staubšećer, il candido zucchero a velo
che mitigava il calore delle delizie croccanti.

Mi sento europea
perché ho letto Kafka in cirillico e Đilas in inglese
e in croato tradussi il sociologo francese Henri Coing
amico fidato.
Perché di venerdì ci toccava il piatto di tagliatelle con semi di papavero
uno strazio vero per ogni bambino mitteleuropeo.

Perché sognavo il Far West come tutti gli adolescenti d’Europa
ardentemente conversando con Gary Cooper
    il giusto del “Fuoco a Mezzogiorno”
mio eroe vicino agli déi
che morì da partigiano nelle gole dei monti Pirenei
in quel indimenticabile “Per chi suona la campana”.

Perché mio nonno, sciarpa di seta e bombetta mondana
lettore assiduo di Stefan Zweig
appassionatamente crebbe che da inseguire sarebbe
eine harmonische Verlauf des Lebens”.
E mai inveire.

Perché allo stadio di ghiaccio nella città alta dove s’andava
quando il cielo s’appesantiva da sfiorarci la nuca
Adamó cantava:“Tombe la niege…”
Perché conobbi la sorte di Imre Nagy
prima che gli speaker del premuroso Occidente iniziassero
i loro esercizi linguistico-ideologico-manipolatori
con questo nome scioglilingua
per loro un eterno enigma
per noi, il simbolo di un’Europa sconfitta
l’insanabile ferita della nostra stessa vita.

Perché mi vergogno profondamente delle prodezze di camicie nere
e per niente amo le bandiere delle patrie.
Perché soffro da cani nel vedere i Balcani in preda a orribili guerre fratrie.
Perché ripudio il nazionalismo come mestiere e come estro
e rifuggo ogni sua fede tramutata in mattanza.
Perché ci credo all’Utopia, all’Altro, alla Sorellanza.

Perché rammento il giorno che in una Roma rossa di garofani
incontrai Rafael Alberti e Dolores Ibaruri.
Lei chioma canuta al vento della Storia
la sentii rivolgersi con tempra rivoluzionaria
ai centomila e trecento
     il giorno che ancora non osò tornare
a celebrare il suo ottantesimo compleanno in una amara Spagna franchista.

Mi sento europea
perché varco i confini considerandoli soglie e mai più frontiere
sentendomi a casa nel Mondo.
Gioco stupendo: tentare di praticare questo conguaglio
Mondo - Europa,
Europa - Casa.
    Ma mi sbaglio forse.