La sera dopo, provammo il sesso anale
e mentre mi blandivi il collo con i pollici
pensavo al Wolf’s Creek
e ai pesci che non prendevi,
colli di grasse trote che non ti sentivi di spezzare
per portare i pesci morti da tua madre.
Nel calore sapevo che il mio culo
era morbido, la buccia di una pesca.
Ma era quello che c’era oltre che ti attirava:
un nucleo sensibile, duro
il nocciolo di una pesca –
le ruvide creste, fini filamenti
imprigionati nei solchi
dove la polpa è strappata via.
Qui, al seme della spina,
gomitolo di muscolo,
hai provato a disfarmi, tenendo fermi i fianchi
con le mani, spezzandomi paziente.
Quando ci fermammo, mi sciolsi
ma rimasi integra
intorno a questa durezza,
nel busto delle tue braccia
finché ci separammo
e recuperai lentamente.
Hai smesso di pescare anni fa.
Usavi l’immobilità,
la patina bronzea dell’acqua
per volere che il pesce fosse più a fondo.
Non potevi guardarli
soffocare o sentire lo schiocco
di ossa delicate
tra il pollice e l’indice.
O camminare verso casa
tracannando birra
col freddo umido sulle mani,
e bagliori di pelle d’argento
troppo agevolmente diventate
il peso morto di una carne
scagliata in fondo
al tuo retino.